sabato 20 novembre 2021

M’illumino d’immenso

E poi una sera, quando meno te l’aspetti e hai pure preso una Tachipirina per il mal di testa, capita di sentir tuonare. Un prete che non ha la faccia da prete tuona dal pulpito di una chiesa di periferia. Prende il microfono in mano e in certi toni sembra quasi assordante. Parla di naufragi, di gente che sta in carcere da una vita ma proprio lì ha imparato a vivere; racconta di sé, di Giuseppe Ungaretti e delle ninfee di Claude Monet: ne ha fatte 37, e qual era la migliore? Forse l’ultima? No, la prima: non la più perfetta ma quella concepita nel momento di “massima ignoranza”, quando è ancora possibile il “massimo stupore”.

Si rimane incollati alle panche ad ascoltare. A digerire macigni. Come la storia di chi è in carcere dal 1991 ed è arrivato a questa saggezza, da imparare a memoria subito: “non importa quanto tempo devo stare qui dentro, posso sempre decidere come starci, come vivere: da guerrafondaio o da poeta”. Forse la voce che parla da quel microfono le ha conosciute le tonalità del guerrafondaio, ma deve alla fine aver scelto la strada della poesia: perché c’è troppa ispirazione in quelle parole. L’ispirazione dell’artista, di chi sa cogliere nella realtà che viviamo non soltanto la tenebra e l’oscurità, ma la luce che può illuminare queste tenebre. “Non aver paura dell’ombra, perché vicino c’è la luce; non esiste la bruttezza, esiste la bellezza che manca; non esiste la cattiveria, esiste la bontà che manca; non esiste l’ombra, esiste la luce che manca”. Siamo orfani di luce in questo momento; siamo pieni di paure, e pure di rabbie e di stanchezze che si stanno depositando dentro di noi come strati archeologici sempre più spessi. Eppure proprio in questo momento ci sono voci che ci possono scuotere dal torpore pericoloso in cui rischiamo di cadere.

Come appunto le voci dei poeti. Metti Ungaretti, per esempio. Ha scritto quella poesia che ciascuno di noi ha impressa dentro il suo dna, a volte senza nemmeno ricordare il nome dell’autore: “M’illumino d’immenso”. In quelle quattro parole c’è tutto. Tutto quello che anche adesso può succedere a ciascuno di noi: lasciarsi illuminare d’immenso. Lasciarsi baciare dalla tenerezza di uno sguardo, dalla bontà, dalla bellezza; dalle foglie giallo fosforescente dell’autunno, dai cachi arancioni che fanno già albero di Natale in ogni giardino; dagli occhi pieni di vita di un adolescente in crisi; dalle mani tremanti di un vecchio che ha perso la testa. “M’illumino d’immenso”: quattro parole che spiegate così nessuno di noi le aveva mai sentite. “M’illumino perché è come se si fosse proprio puntato la luce contro”. Ci sono momenti della vita in cui il buio è fitto, ma questi versi dicono anche a noi oggi che “in quel buio non sono scappato, ma ho cercato la luce che potesse illuminarmi”. Quella poesia Ungaretti l’ha scritta a 29 anni, nel pieno della I guerra mondiale, ed ha pure una data precisa: 26 gennaio 1917. E un luogo preciso, S.Maria la Longa, paesino a poca distanza da Palmanova. “Dentro al buio della guerra si è lasciato illuminare”.

Da dove ripartire dunque oggi? Da sé stessi. Dalla propria storia. Da quello che resta dopo tutto ciò che abbiamo vissuto. ll prete che tuona da quel microfono ogni tanto la voce la abbassa. E vedi il ragazzo, il giovane uomo che deve averne viste tante e di ogni storia si è innamorato; si è lasciato contagiare dalla fragilità di chi lo ha accostato, e proprio da quella fragilità è stato salvato. Le storie più belle sono quelle di chi “dopo il naufragio ha vinto la vergogna e si è messo sulla strada”: ex carcerati, ex pazienti di manicomi, e la lista potrebbe continuare all’infinito. Sono le storie di chi ha accettato di essere sé stesso senza ripiegarsi sul suo dolore, su ciò che avrebbe potuto anche abbatterlo per sempre.

Come ripartire? “Dalla tua vita, da quello che sei, dall’amore per le piccole cose”. Lo dice anche Ungaretti in un’altra poesia: “E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare”. Non rinunciamo a vivere dopo il naufragio. E soprattutto non lasciamo naufragare lei, la piccola speranza, alla quale Charles Peguy dedicò stupende parole nel ‘Portico del mistero della seconda virtù’. “Non c’è nessun luogo della storia dove tu non possa fare esperienza di bellezza”. 

Un immenso, sentito grazie a don Marco Pozza, cappellano del carcere ‘Due Palazzi’ di Padova per questa lettura intensa, vissuta ed assordante di un piccolo tesoro della poesia italiana. Ci voleva un prete come lui, turbolento e dolce al tempo stesso, per far risuonare in quel modo Ungaretti in una chiesa semplice, scaldata solo da quel lumicino accanto al tabernacolo che non si spegne mai. Al quale si dovrebbe tornare un po’ più spesso per lasciarsi illuminare nelle proprie angosce.

E subito abbiamo ripreso il viaggio, come superstiti lupi di mare, tornando alle nostre case con un batticuore da bambini che hanno dentro una gioia inquieta che non si scorda.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie per queste parole piene d'amore. Le tue, cara sorella che vivono di quel tanto, immenso, tenero e fragile Amore che don Marco ci ha donato.

amurianum ha detto...

Grazie per averci reso partecipi. Grazie perché Ungaretti a scuola, non me l'avevano spiegato cosí bene. Grazie