mercoledì 18 agosto 2010

D’io, che mal di testa
 
Cosa ci comunica oggi l’arte contemporanea, cioè l’arte del nostro secolo e dei nostri giorni? Per capirlo sono andata al Maxxi, l’astronave marziana atterrata nel centro di Roma da qualche mese per mettere in mostra le opere degli artisti del XXI secolo.
La giornata è tersa, perfetta, con un cielo azzurro che fa da sfondo all’enorme struttura creata dall’architetta irachena Zaha Hadid. Forse l’arte contemporanea deve prima di tutto stupire per la sua grandezza, viene da pensare di fronte allo scheletro d’uomo extra-long di Gino De Dominicis, adagiato all’ombra della mole schiacciante dell’edificio. Colpisce subito il naso aquilino dello scheletro, simile a quello di un uccello. L’uomo morto si libra meglio nell’aria? Odora meglio i suoi simili? Sviluppa meglio l’olfatto? Il titolo dell’opera (‘Calamita cosmica’) non lo chiarisce, ma questo rimane una costante di tutta l’arte contemporanea: tu guardi ma non necessariamente devi capire, anzi il fatto di capire svilirebbe forse anche l’opera. Morte della comunicazione? A naso (quello aquilino dello scheletro), mi viene da dire che è così. Ma è tempo di entrare, i pensieri lasciamoli fuori.
 
All’ingresso, un bar che prosegue nella forma la linea acuta del naso scheletrico: ordini il caffè alla cassa, poi circumnavighi attentamente uno spigolo acuminato capace di infilzare un eventuale visitatore in corsa, e te lo vai a bere su un banco parzialmente in discesa, a guisa di scivolo ma tutto in nome del design più raffinato. Il giovane barista pare destreggiarsi con consumato cinismo nel contesto: “Eh, sapesse quanti caffè se perdeno qua...”. Egli, nei pochi mesi trascorsi dall’inaugurazione del museo, ne ha già viste molte, ma soprattutto molti: “molti volti tristi”, sottolinea, non è chiaro se già tristi all’ingresso - di una tristezza che pare ormai essere sociale, comunitaria, nazionale - o tristi postumi, ovvero dopo la visione delle arti e architetture contemporanee. E’ un'altra domanda che metto da parte, come la borsa che devo consegnare al guardaroba, nascosto in un’oscurità quasi tombale ma strategicamente collocato di fronte ai bagni. Sosta obbligatoria, per notare l’onnipresenza dell’acciaio inox dappertutto, anche nelle tazze, cosicché sembra di appoggiare le natiche su una pentola, e quando tiri l’acqua hai già lavato tutto.

Il grigio è il colore prevalente, assieme alla costante sensazione di essere ospiti di spazi immensi ma asettici, freddi, illuminati di tanto in tanto da qualche opera capace di stupire o divertire: è il caso della stanza – buissima! – in cui campeggiano al centro due mastodontiche paia di gambe mozzate all’altezza del soffitto, una maschile con pantaloni e l’altra femminile con gonna e scarpe di antica fattura ma sempre enormi. Spezzati anch’essi all’altezza del soffitto, alcuni quadri che potrebbero venire da una Galleria di arte moderna. Davanti ai nostri occhi, invece, una serie di fotografie con corollario di poesie, quasi tutte illeggibili vista la scarsa luce. ‘Dov’è il nostro posto?’, è il titolo interrogativo dei due artisti russi autori dell’installazione, e la risposta è un lungo cartello esplicativo che fa sommessamente commentare ad un signore di mezza età: “Me so’ggià annoiato a’legge”, e io non lo so se questo è il commento del rozzo analfabeta o di chi forse, nella sua grettezza, ci azzecca. La domanda profonda è infatti sempre la stessa: perché, per capire cosa vedo, devo affidarmi ad un pannello esplicativo? Non dovrebbe l’arte parlare di per sé, magari anche con un vagito ma senza la necessità forzata di una didascalia?


A questo punto, se con gli occhi non riesco a mettere bene a fuoco (anche perché, parentesi, a mio parere sto diventando presbite: frutto dei 40 anni appena suonati), cerco di chiamare in causa gli altri sensi. Niente, non posso toccare niente: né le gambe che mi rimandano ad una piacevole sensazione lillipuziana, né i due fasci di spaghetti trasparenti che pendono dalle pareti di un'altra installazione di artisti croati. Le signorine guardiane del tempio contemporaneo sono lì anche per impedire gesti che forse invece non dispiacerebbero ai creatori creativi. Se non posso toccare, potrò almeno sentire? Desiderio accontentato. E amplificato. Non un solo suono distinto ma una babele di suoni, come vuole il tempo presente: Luca Vitone propone un'Italia in versione folk acustico, in cui ogni regione è rappresentata da cubi lignei su cui poggiare l'orecchio ed ascoltare canti, poesie ed altro repertorio buono per un corso di etnomusicologia.
In lontananza, una risata. E' 'D'io', un'altra opera di De Dominicis. D'io, che mal di testa. Sarà mica colpa dell'arte contemporanea?

4 commenti:

utente anonimo ha detto...

(auguri)((francesca del liceo))

utente anonimo ha detto...

grazie, anche a te!(((lucia)))

Arlon ha detto...

state facendo un uso privato del mezzo pubblico... come disse il cavaliere richiamando santoro.anche la comunicazione incomunicabile del contemporaneo ha i suoi cliché: perché usare il folk per far parlare le regioni? vorrei i suoni della strada, gli schiamazzi, gli strombazzamenti nel traffico, i suoni dei porti e dei condomini.... e perché no? entrare in una sala e avere la possibilità di annusare quel che ci è dato odorare per strada... e poi mischiare vecchi e nuovi odori, fragranze e cattivi odori

utente anonimo ha detto...

Grand'Arlon!