lunedì 1 gennaio 2024

Violetta

Violetta cammina fucsia, rosa e lillà, capelli tinti rossicci e la sfacciataggine di una richiesta che spiazza: "Scusate, chiedo a voi perché siete donne: potreste aiutarmi a vedere se è chiuso il bottone dei pantaloni che sennò li perdo?"
Oibò, attorno è lo struscio del lungomare barcolano il primo giorno dell'anno. Tutti camminanti, villeggianti, vacanzieri, spensierati, mediamente gioiosi, seppure di gioia vera non è che se ne veda propriamente a palate in questi ultimi tempi. 

Fatto sta che dentro mi si apre la voragine della paura della follia, ma per fortuna vicino a me ho una madre che questa paura non l'ha mai avuta. E con la tranquillità più disinvolta del mondo, esperienza di sarta di lungo corso, si avvicina e aggiusta. Proprio come una mamma con una figlia piccola. Ora i pantaloni fucsia sono chiusi a dovere: il bottone è entrato nell'asola. E Violetta vestita di rosa e lillà, come una bambolina, ringrazia e racconta. Perché la solitudine ti fa parlare con gli sconosciuti come se fossi sempre a bordo di un treno che si chiama vita. Ha avuto un ictus, il braccio sinistro è paralizzato, è rimasta per anni in carrozzella e ha tentato tre volte il suicidio. Chi l'ha salvata le ha detto: "Te ga de viver altrimenti chi resta a romper i c...?" Così lei è rimasta a lottare in questa vita, ma ha voluto farlo restando in piedi. Armata soltanto di un bastone che la aiuti a camminare. E' riuscita ad arrivare persino a Roma per una sua privata manifestazione di protesta, e se avessero potuto farlo, le avrebbero dato una medaglia per la sua forza interiore. 

Gliela diamo noi, in questo giorno che inaugura un nuovo anno al quale chiediamo di azzerare tutti i conflitti, anche i più apparentemente innocenti ed innocui. Azzerare tutte le antipatie, il malanimo che ogni tanto si insinua, le inutili invidie e gelosie, mostri dagli occhi verdi. Tutto appianare e vestire di rosa confetto, come Violetta che cammina con il bastone e il coraggio di una vera combattente. Il coraggio di chiedere anche a due sconosciute di aggiustarle un paio di pantaloni. Il coraggio delle richieste inaudite. Che solo quelli un po' matti sanno fare. 

Ecco, buon Dio, aiutaci davvero a chiedere l'impensabile e a sperare contro ogni speranza. Cara Violetta e cari lettori delle Cosmeticomiche equamente sparsi tra Nord e Sud del mondo, un augurio forte a tutti!

sabato 2 settembre 2023

Storie di umani e granchi blu

Il treno corre e il signore è immerso nella lettura del 'Corriere della sera' del 17 agosto (il pezzo è “postumo”). La conversazione si accende sulla notizia in prima pagina del governatore del Veneto che ha intenzione di distribuire chili di granchi blu alla popolazione della regione per arginare l’invasione di questi anomali crostacei killer: distruggono tutto, persino le reti di pescatori. Urge pertanto una soluzione, che potrà comprendere anche un kit di ricette a base di granchio blu, e il signore si immagina ai fornelli intento a produrre un risotto nel blu dipinto di blu.

Dal granchio blu ai migranti che arrivano sulle coste del nostro Paese il passo è breve. E’ l’argomento del giorno, o meglio del decennio. “Ah, tutta la gente che viene dall'Africa! Ah, come sarà il mondo e l'Italia! Quelli hanno bisogno anche di sfogarsi, quindi le donne dovrebbero essere disponibili…” Gli faccio vedere che sto leggendo un libro scritto in prima persona da un ragazzo che ha vissuto sulla sua pelle un viaggio che noi, comodamente seduti su un un treno ad alta velocità, non riusciamo nemmeno ad immaginare: Fratellino, di Amets Arzallus Antia e Ibrahima Balde, quest’ultimo un ragazzo della Guinea che parte alla ricerca di suo fratello e fa esperienza di un vero e proprio calvario. Trasferimenti di città in città a bordo di camion stracolmi, e poi carceri nel cuore del deserto, prigioni, torture, armi puntate, la vita che è continuamente messa in pericolo e disumanizzata. Soltanto perché uno ha deciso di mettersi in viaggio lasciando il suo Paese d’origine nel cuore dell’Africa.

La dolcezza dell’Appennino fa scordare tutto. “Eh, arrivano senza documenti!” Gli leggo proprio il punto del libro in cui il ragazzo racconta che il documento gli è stato preso e gettato via, per frugare nei suoi vestiti alla ricerca di soldi, e lui stesso dice che senza documenti si vale meno di una capra. Pensare che noi viaggiamo così bene, con l’aria condizionata per non sentire il caldo; abbiamo da mangiare, da bere, siamo liberi di muoverci con tutti i nostri documenti al seguito, non abbiamo paura di incappare in posti di blocco o controllori armati che ci puntano un kalashnikov alla testa, come Ibrahima racconta nella sua storia autobiografica.

Il signore è arrivato a Firenze, ma prima di scendere evoca altri scenari apocalittici: “In futuro cosa mangeremo? Insetti in scatola! Noi avevamo i Medici nel Rinascimento, oggi c’è un decadimento, cosa lasceremo ai posteri? I cellulari!” Vedrà che i giovani lo cambieranno questo mondo, sono molto fiduciosa. “Sì, con l’apericena!” Il signore prende la valigia e raggiunge la porta che si apre sul caldo asfissiante di qualche giorno fa. Invece sotto i miei occhi prosegue il racconto dell’odissea sventurata dei migranti, o meglio di un ragazzo con un nome e cognome, e il sogno di ritrovare un fratello perduto. Non parte perché si era messo in testa di invadere un Paese; non perché desideroso di migliorare la sua situazione di vita; non per guadagnare di più; non per fare il terrorista. Si era messo in viaggio per andare a cercare suo fratello scomparso di casa. Per un legame familiare forte, messo prima di qualunque altra urgenza.

Ed eccola la verità, dopo ore di cammino senza cibo e maltrattamenti di ogni genere. Si trova scritta a p.63: “L’altro giorno, uno di qui mi ha detto che l’Europa dà un sacco di soldi alla Libia perché non lasci partire i migranti, e per questo in Libia ci sono tante carceri piene di gente come me. Io non so se è vero, non capisco molto di politica, ma so cos’è la Libia. La Libia è una grande prigione, ed è difficile uscirne vivi.”

Di fronte a questa affermazione scritta così chiara, nero su bianco, non riesco più a guardare lo schermo con le notizie degli arrivi dei migranti e degli hotspot al collasso come prima. Ora so che cosa c’è dietro a quegli arrivi. Conosco la storia di uno di loro, la sua verità. E’ arrivato a desiderare di voler morire piuttosto che vivere attraversando un continuo inferno in terra d’Africa, diventata uno stato di polizia per chi cerca di percorrerla non per turismo o altri seppur nobili intenti, ma perché africano tra gli africani.

La brama inesauribile di soldi? La miseria? Gli interessi spudorati di un Occidente che vende armi e fa accordi con Paesi diventati stati-prigione? Che cosa è accaduto a quell’enorme continente in questi ultimi decenni, perché oggi non sia possibile muoversi da uno stato all’altro in modo umano? Nel libro-testimonianza di Ibrahima protagonisti di tutto, movente di ogni bruttura ed orrore, sono i soldi: chiesti di continuo, estorti con la forza, rubati. Un mondo senza etica, senza umanità, senza scrupoli. Impossibile anche solo da visualizzare per noi che guardiamo lo splendore del cielo blu intenso centro-italico. E riaffiorano altre dichiarazioni del signore fiorentino: “Come se a noi dicessero: ecco lì troverete il paradiso, vi daranno una casa, e allora noi ci mettessimo in testa di invadere l’Africa!”. Abbiamo fatto precisamente questo in passato, caro signore, con rigore geometrico a partire dalla Conferenza di Berlino del 1884: l’Africa divisa come una torta. Colonizzato ogni centimetro buono da sfruttare.

Ed oggi che cosa siamo capaci di dire? Noi come Italia? Noi come Europa? Se tu stai male e sai che si può stare meglio, non prenderesti il primo treno ad alta velocità per lasciarti tutto alle spalle ed iniziare una nuova vita? Che cosa accadeva all’inizio del Novecento ad Ellis Island, isolotto davanti a New York? Sotto la statua della libertà noi cercavamo un futuro migliore. Perché non rileggiamo i numeri di quella migrazione? “A partire dalla metà del XIX secolo milioni di persone giunsero negli Stati Uniti da ogni angolo del mondo, ma soprattutto dall'Europa. La porta d'ingresso della maggior parte di loro fu New York: tra il 1855 e il 1890 la città accolse otto milioni di migranti.” Milioni, non migliaia. Leggiamolo tutto l’articolo su Ellis Island, l'isola degli immigrati, per capire come, se c’è la volontà di affrontare un problema senza strumentalizzazioni politiche o vili preoccupazioni elettorali, la soluzione si trova.

Mentre arriviamo a destinazione e fuori sfila il verde, la bellezza, i borghi medievali, sfilano anche le notizie date in pasto ai passeggeri come noccioline: i 2000 migranti che affollano l’hotspot di Lampedusa, il “problema” al quale sembra che nessuno riesca a trovare una soluzione: politici nostrani, politici europei, riunioni, tavoli, tanta materia grigia che dovrebbe occupare una posizione per affrontare un “problema” che potrebbe essere risolto con l’accordo, con la mediazione, con l’intelligenza, con gesti concreti. Anche piccoli, come quello della signora che l’altra mattina ha chiamato la trasmissione di Radio3 ‘Prima pagina’ per dire che lei, di sua spontanea iniziativa, sta ospitando una famiglia irachena, e che sarebbe tanto bello se il Governo potesse finanziare programmi di accoglienza come quello messo in pratica dalla signora generosa e di buon cuore senza leggi né decreti sicurezza.

Dove sei, Italia? Dove sei, Europa? Abbiamo ancora un’etica? Crediamo ancora nella nostra Costituzione? Crediamo davvero che siamo tutti un’umanità unica e che non ci si salva da soli? Possibile che siamo capaci di trasformare un dramma così complesso in notiziole di cronaca che non fanno altro che alimentare razzismi, incomprensioni ed intolleranze?

“Informiamo i gentili passeggeri che siamo in attesa dell'autorizzazione alla ripresa della corsa”, dice la voce asettica dal treno. Mi viene in mente per contrasto la voce potente di padre Alex Zanottelli, missionario e profeta tuonante dei nostri tempi, che chiedeva proprio l’anno scorso più attenzione per le notizie dall’Africa, continente sfruttato ma dimenticato da noi che viviamo in questa parte fortunata del pianeta. Tutti noi dovremmo leggere Fratellino per non omologarci al pensiero dominante e continuare a comprendere sempre meglio il mondo in cui viviamo. Grazie a papa Francesco per aver suggerito questa lettura durante la conferenza stampa di rientro dalla Gmg di Lisbona, lo scorso 6 agosto.

Stiamo arrivando e un signore si lamenta perché dice che hanno speso milioni di euro per far viaggiare questo treno a 100 all'ora invece che a 300. In Africa il regno del terrore, spari, fucili, crimini contro l’umanità che forse non avranno mai tribunali a giudicarli; qui il lamentificio nazionale. Chi si  rimbocca le maniche o denuncia? Si accomodi, prego, ecco servita una bella carbonara al granchio blu.

martedì 22 agosto 2023

Signore e signori,

ecco a voi la grande bellezza.
Roma non è una città dove andare o un luogo da visitare. E non è nemmeno la capitale d'Italia.
Roma è un'esperienza da fare. Da tuffarsi dentro senza perdere tempo a fare paragoni. Solo lasciare che la città ti conquisti.
Dalle un po' di tempo. Non accadrà subito, come quando conosci una persona. Non la conosci in due ore o in un giorno. Dalle almeno tre giorni, dalle tempo di farti resuscitare dalle tue morti e tristezze e varie malinconie. Dalle persino il tempo di scaldarti le ossa dopo il surgelamento da aria condizionata subito sul treno.

E il terzo giorno resusciti, cento per cento. Soprattutto grazie agli incontri inaspettati.  
Quando sta per scoccare la la mezzanotte di fronte a quell'eterno splendore della fontana dei quattro fiumi di Bernini in piazza Navona, può capitarti di essere riconosciuta da un giornalista siculo pensionando, che gironzola per la capitale da solo ma ha buona memoria e parte con una serie di considerazioni sul reddito di cittadinanza e la pensione minima. Poi fa domande su Trieste e cita "La rosa rossa", film con Alain Cuny da vedere assolutamente. Il giornalista dice che lui in pensione non ci vuole andare, quindi continuerà a scrivere per tenersi vivo. Gratis ma continuerà a farlo per non ritrovarsi soltanto a bighellonare nei giardini della città eterna. 

L'estate è la gioia di stare assieme, dice la pubblicità del cornetto intercettata dal treno.
Roma è la gioia di stare assieme. Ti riconcilia con il mondo. E' il mondo. E' l'accampamento di poveri senzatetto fuori dalla stazione Termini, ed è la fila fuori dal locale che fa schiacciate farcite con creatività toscano-romana. Odori avvolgenti di pecorino, mortadella, tartufo, prosciutto stagionato. I turisti impazziscono e impazzisco pure io che chiedo ben tre focacce, due delle quali chiamate "paradiso". Perché sono in paradiso. 
Guardo in alto il cielo blu e la sagoma curva, dolce, sinuosa della chiesa di S.Maria Maddalena. Ave crux spes unica. Ragazzi, guys, permesso! Un ragazzo si fa largo tra gli avventori, portando palate di focaccia che diventeranno i panini imbottiti più amati dai turisti dietro al Pantheon.

"Ma tu di dove sei?" Lo chiedono alla signora cinese i ragazzi mentre lavorano con puro stile romanesco, sempre all'insegna della massima efficienza e del massimo relax. "Di Bologna!" Risata fragorosa, affetto puro ed affettato, tutto insieme nelle sette focacce che la signora ordina per tutta la famiglia. Poi è il mio turno. Prendo tre ma ne pago due "perché la signora me sta simpatica", dice il ragazzo che farcisce. Mi arriva pure una bottiglia di vino rosso offerta come omaggio a quel gran genio "incompreso" - parola del ragazzo che la sa lunga - di Luttazzi e al suo "Can de Trieste". E ghe piasi el viiiiiiiin, cantiamo assieme e si riparte con il cuore che si è ormai scaldato. 


Roma è un antidepressivo naturale, disse un giorno una signora veneta di passaggio. Sembrava una boutade come tante, ma è la verità. The Truth. La bocca della verità dove i turisti mettono la mano. La città delle meraviglie da toccare con mano. Da fondersi dentro ai mezzi pubblici per ritrovare quella leggerezza di un tempo.

Bus, trenino e di nuovo bus, e compaiono le dune dei cancelli di Ostia: spiagge libere, alla portata di tutti, dove capita di trovare di tutto. Un popolo multicolore, multiodore, multietà. Già sul trenino da Ostiense, fermo poco dopo essere partito. Nessuno si muove anche se una voce femminile dice di scendere perché "non c'è tensione". Proprio vero, a me è davvero sparita ogni tensione che mi portavo dentro. Anche il torcicollo con cui ero partita. Mi sento a casa, rilassata, e in buona compagnia. 

Nonostante la voce dica di scendere, nessuno si muove, in compenso la signora seduta vicino ne approfitta per fare due chiacchiere: quasi mezz'ora di predica e racconto autobiografico, pressoché senza interruzioni. Roma mi ha insegnato l'arte dell'ascolto e del dialogo, specie con gli sconosciuti. Ora lo riconosco, me lo ricordo. Ora che sono completamente sbrinata e rilassata ritrovo le sorgenti di quell'arte di vivere che mi ha fatto restare per sedici anni lì, lontana da casa, dove ho trovato varie case che mi hanno accolta. Storie di accoglienza, di cuori caldi, di cuori pulsanti di vita. 
Come quello della signora ucraina che inizia a raccontarmi tutta la sua vita, guerra inclusa e alcune perle sapienziali: abbiamo 8 ore per lavorare, 8 ore per dormire, 8 ore per lodare la creazione. 

Ma che bella apertura di vita su questo trenino dove "non c'è tensione". Racconta dell'Ucraina sotto la Russia, quando non c'era possibilità di espatrio né di lettura della Bibbia, e tutti si doveva vestire con gli stessi colori smorti. Arrivata in Italia vent'anni fa e rimasta vedova da giovane, fa la badante di una signora novantenne e si rallegra di non essere diventata né ladra né prostituta. Alla fine mi dice che i testimoni di Geova rifiutano la violenza, chi di spada ferisce di spada perisce, e scende lasciandomi un cartoncino con un indirizzo internet per andare a vedere quando arriverà la fine del mondo.

Da fine del mondo intanto è il tramonto, con un sole rosso arance di Sicilia che non vuole proprio scomparire all'orizzonte, e si attarda lento, spicchio dopo spicchio, quasi esitasse a tuffarsi tutto nel mare: dono immenso del creatore! La fine del mondo può attendere. Prima c'è da fare l'ultima immersione umana estrema nell'autobus che collega il litorale con il trenino metromare. 

Bus stracolmo, multietnico è dire poco: colori tutti diversi, dal pallido al nero notte, sguardi addormentati, avvinazzati, estenuati, assolati. Ma sempre in vena di condivisione. Non devi fare nulla, solo lasciarti coinvolgere anche se non vuoi. E il signore tunisino seduto di fronte con il cellulare e la cassa a tutto volume regala a tutto l'autobus la "Febbre del sabato sera" come fossimo discoteca. Staying alive, staying alive ah-ah-ah-ah. Lui si alza persino in piedi e vorrebbe benedire con la cassa un po' il suo amico seduto vicino a me, un po' anche me, che mi scappa da ridere ma un po' mi trattengo, un po' mi guardo attorno e mi pare davvero di stare in un film di Moretti, con un pezzo di autobus che balla e muove la testa a ritmo su uno sfondo di miseria e nobiltà. Per pochi interminabili minuti. Poi si scende e un pizzico di timore l'ho avuto e capisco che bisogna stare attenti, e un signore dice "E' stata fortunata che nun je arivata la bira addosso", eppure mi dico che Roma è il più bel battesimo di umanità vera, maleodorante e splendente che si possa fare di questi tempi. Ma Giorgia lo sa? Amen. 

domenica 6 agosto 2023

Grazie, ragazzi!

Grazie, ragazzi che concludete oggi l'esperienza delle Giornate mondiali della Gioventù di Lisbona. Noi vi abbiamo visti da qui, dalle televisioni di casa o degli alberghi dove ci trovavamo in vacanza. Maltempo ed emergenza, così la televisione si accende e finalmente è portatrice di buone notizie. E si riaccende la gioia, la speranza, la bellezza. "Terrorizzati dal bello perché vissuti nel marcio", avevo sbirciato nel profilo Whatsapp di un ragazzo talentuoso con molti sogni e già qualche sasso di troppo nelle tasche. E forse è così per molti, non solo giovani. Assuefatti da troppa negatività, abbiamo quasi paura di aprirci al sole che abbaglia. 

E allora, ancora di più, un enorme grazie a tutti voi che ci avete messo testa, cuore, gambe, il corpo intero per ritrovarvi assieme lì: un milione e mezzo, abbiamo sentito, da tutti gli angoli del mondo. Vi hanno inquadrati le telecamere: belli, assorti nella preghiera, nella pace o nella gioia straripante, nel silenzio e nel canto a squarciagola, e qualcuno magari avrà storto il naso, perché c'è sempre chi, di fronte ad un eccesso di gioia, non riesce a reggere e deve per forza dire che è tutto esagerato, che è troppo, che insomma i problemi del mondo sono tali e tanti che tutto questo è quasi uno spreco di vita.  

Ma voi siete andati avanti, seguendo quell'uomo meraviglioso che è Papa Francesco e la sua forza interiore. Quella forza che soltanto la fede vera riesce a suscitare con naturalezza e spontaneità. Vi siete davvero tutti sentiti chiamati per nome, come ha ripetuto il Papa, inondandovi di un amore che fa sentire "amati così come siamo adesso, non come vorremmo essere. Senza truccarsi, senza make-up". Sono certa che in quel momento vi sarete sentiti unici, speciali, e non soltanto numeri, come ben detto da Francesco citando il rischio di una realtà virtuale che "vi conosce per nome ma non vi chiama per nome". E poi quel "todos, todos, todos", ripetuto tante volte. "Nella Chiesa c'è posto per tutti!" 

Nel giorno in cui ascoltavo queste parole e prendevo appunti sull'immancabile quadernetto tascabile da viaggio, c'era stato un incrocio di grandi eventi da segnare: la morte di suor Elvira, la "suora dei drogati" fondatrice della Comunità Cenacolo sulla collina di Saluzzo quarant'anni fa, e oggi realtà tangibile di guarigione e rinascita per migliaia di ragazzi di tutto il mondo; la nascita di un bambino da una madre giovanissima e già sola, ma sostenuta dall'affetto di una brava nonna; e sempre quel giorno su una spiaggia di una rinomata località balneare una madre e una figlia affrontavano le sferzate di un vento di scirocco capace di mettere a dura prova i nervi e il fisico di entrambe, per essere poi guarite dalla potenza del mare in tempesta e dall'umorismo da commedia all'italiana che sempre salva. 

Noi qui di fronte al mare e voi lì, di fronte a quell'oceano da quale partirono esploratori finiti poi nei libri di storia. E nei libri di storia ci finirete anche voi, perché mai si erano visti telegiornali iniziare con una simile bella notizia e con immagini così abbaglianti di fiumi di ragazzi accorsi in uno stesso luogo non per un cantante, non per una manifestazione politica, ma per ritrovarsi uniti da una stessa luce che non conosce confini né barriere ideologiche. 

Inondate il mondo di gioia, di pace, di bellezza, ragazzi! Non fatevi tirare giù né dalle nubi vere né dalle quelle che nascono dentro durante il percorso della vita per i motivi più diversi. "Cadere e rialzarsi", ha ripetuto il Papa ieri sera durante la veglia. E ancora oggi: "Non abbiate paura!". Abbiamo così tanto bisogno di iniezioni di fiducia, di speranza, toccando con mano e non soltanto con un clic che la fede vera illumina lo sguardo e fa sentire tutti fratelli. Ritornare nel quotidiano sarà la sfida più difficile, ma tenendo desta nel cuore l'esperienza vissuta in prima persona e cercando sempre e ovunque compagni di viaggio attorno a voi, anche la strada più tortuosa diventerà un sentiero percorribile.

Tornerete presto all'abbraccio dei vostri genitori e dei vostri amici, e magari troverete il coraggio di fare scelte impensate prima di partire. E guarderete il mondo con occhi nuovi. E porterete ciò che avete vissuto come regalo a chi troverà finalmente il tempo di ascoltarvi. E sarete voi, ne sono certissima, a fare quello che tanti adulti che occupano importanti posizioni di potere non riescono ancora a fare: credere davvero nella pace e nella possibilità di una convivenza gioiosa di tutti su questa piccola palla multicolore che è la nostra Terra vista dal mappamondo di casa.  

lunedì 17 luglio 2023

Dovere di cronaca (seppure con un giorno di ritardo)

Tutto inizia con una visione: luci imbizzarrite tra le nuvole della sera. Saranno mica degli ufo di mezza estate? Tutto è possibile ormai dalle nostre parti: il clima cambia, la guerra impazza a pochi chilometri da casa, l'Intelligenza artificiale promette di soppiantare le nostre ormai flebili intelligenze umane. Sarà forse arrivato il tempo dei marziani che approdano sulla Terra?

Si sale in terrazza per avvistare meglio. Niente ufo, in lontananza echi di voci musicali e raggi di luci che si muovono da un punto imprecisato lì lontano...le prove generale dei Måneskin? Si va a dormire con questa supposizione nel cuore. Via Whatsapp il parroco della nostra chiesa di periferia conferma: sì, terribile. 

Bene, siamo tutti pronti, zitti e buoni. O meglio accaldati e nel vortice di Caronte che sta per traghettarci tutti all'altra riva, dove sconteremo i nostri vari e numerosi peccati. Ma prima lasciateci divertire. Lasciateci vedere la periferia che si apre all'arrivo di un'ondata internazionale di fans approdati da mezzo mondo qui, in quest'angolino di Nord-Est. Venticinquemila dentro lo stadio. Ma la festa si fa anche fuori.

Siamo fuori di testa, ma diversi da loro, canta Damiano. E noi restiamo fuori. Ma ci siamo. L'evento era stato annunciato da mesi, addirittura per loro si è aperta biblicamente, come Mosè nel mar Rosso, la Galleria di Piazza Foraggi chiusa da più di un anno. "Mi no me piasi perché i se spoia troppo", aveva minimizzato l'impiegato di un supermercato a pochi metri dallo stadio dove si sarebbe esibita la rock-band romana. "Non riesco a spiegarmi il perché di questo fenomeno, quali messaggi portano", chiedeva poi un caro amico non più giovanissimo. 

Ed eccolo il messaggio che arriva da solo: il vuoto si riempie, la periferia si anima, chioschi fuori dallo stadio, ragazzi accampati dal mattino sotto ombrellini colorati anti-sole, parcheggi stipati la sera. Quei luoghi del deserto che sono casa tua, dove sai che succederà molto poco e si troverà sempre posto, improvvisamente diventano i più richiesti e gettonati. Si accendono i riflettori sul nulla. E gioia sia! Le case che si affacciano sullo stadio sfolgorano di luci e persone assiepate sui balconi o alle finestre a godersi lo spettacolo.  

Questo è il messaggio, caro amico: che ragazzi e ragazzini si risvegliano dalle catacombe, escono di casa, non cliccano più soltanto video su Tik-tok ma partecipano, esistono, si fanno vedere. E si divertono, magari anche assieme ai loro genitori. E questo è un messaggio ed è una notizia. La musica è sempre energia allo stato puro, risveglia i morti, unisce generazioni, può entusiasmare anche quando la calura fa sudare ad ogni respiro. 

E bisogna andare a vedere. Proprio perché è tempo di stare assieme non solo virtualmente. Urge ritrovarsi vicini, vedere che ci siamo, che esistiamo anche in formato grande festa collettiva. Pure senza biglietto, che oggettivamente costa un po' troppo come mi conferma il vecchio compagno di scuola (trecento euro, avesse voluto portare tutta la famiglia).

Fuori non sono molti a ballare, si preferisce piuttosto fare video, riprendere, anche solo il triangolino di maxischermo messo a fuoco dalla strada retrostante. Ma come si fa a stare fermi quando la terra tuona? "Questa sarà una serata memorabile", dice Damiano all'inizio, poco dopo le 21. Memorabile è stato già uscire di casa e trovare parcheggio, coinvolgendo nella folle impresa l'anziana madre che mantiene uno spirito da ragazzina ma non si capacita di vedere la figlia agitarsi come una menade impazzita. Ma qui non occorre essere fan sfegatati per muoversi: i brani più famosi della band sono ormai diventati gingle, musiche pubblicitarie, patrimonio sonoro condiviso. Impossibile rimanere impassibili. 

Quindi Marlena torna a casa, e anche noi ci ritiriamo con quell'ebbrezza adrenalinica che solo i concerti sanno trasmettere. Ma i Måneskin sono sempre con noi. Stamattina al telefono con un call-center per cercare di risolvere una delle tante simpatiche grane associate all'acquisto di un nuovo cellulare: voce registrata e "Gossip", poi la signorina mi passa un altro operatore, e parte il ritornello di "I wanna be your slave". Musica e telefoni, musica e comunicazione, musica e questo magico mondo multimediale dal quale ci sentiamo sempre un po' blanditi e ingannati. Ma pur sempre musica, che muove il cor (sic!) e le altre stelle. Anche di una notte cocente di mezza estate. 


domenica 18 settembre 2022

May you live in interesting times

Se ne sta lì fermo da almeno tre mesi. Lo yacht più grande del mondo, dice Wikipedia, inutilmente arenato nelle acque del golfo di Trieste a fare nulla. Sotto sequestro perché di proprietà di un oligarca russo, e se questa storia l’avessimo raccontata un anno fa, molti si sarebbero chiesti perché: perché la ricchezza che tanti agi promette, diventa invece paralisi totale nelle acque del mare che quel potentissimo yacht potrebbe solcare con il massimo della libertà concessa ad un supermiliardario.

Eppure è così, ed è una delle conseguenze di questa folle guerra rispetto alla quale sembriamo diventati afoni. Muti. Impotenti. Oggi forse addirittura indifferenti. Solo Papa Francesco, puntualmente, assegna l’aggettivo giusto alla guerra: crudele, folle, insensata. Credo sarebbe il primo a scendere in piazza se ci fossero ancora manifestazioni per la pace. Ma invece nulla, eccoci qua, a quasi sette mesi dall’aggressione russa dell’Ucraina, appiattiti su un’altrettanto folle campagna elettorale consumata nel caldo atroce di un’estate italiana agli sgoccioli.

L’oligarca proprietario dello yacht che staziona nelle acque del golfo ha risparmiato sul nome da dare all’imbarcazione: soltanto un’iniziale, A. Ed A. è lì, davanti ai nostri occhi ogni giorno: un carro armato gelido, metallico, impenetrabile, con tre alberi che lo rendono riconoscibile da qualunque parte lo si guardi. Anche lui muto, impotente, spettatore mastodontico di ciò che accade sulla terra ferma.

Proprio per non diventare anche noi tutti spettatori di quanto accade attorno a noi, condivido alcuni pensieri e scarabocchi segnati a matita su un librino portato in spiaggia (quelle di cemento triestine) lo scorso agosto. Mentre davanti alla Tv scorrevano le immagini e le parole dei vari leader di partito in corsa per queste elezioni, mi è venuto in mente un volto: quello di una persona buona, onesta, pulita. Il volto di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni di carcere per aver trasformato il suo comune in un modello di accoglienza. Ho digitato su Google il suo nome per un aggiornamento: la sua condanna è in corso di revisione e si è costituito anche un comitato a sua difesa. Il mese scorso ha dichiarato: “Siamo di fronte a una destra pericolosa, che mi dà un’idea della politica della punizione, che ostacola, rifiuta, chiude, rafforza il confine, parla di sicurezza, di armi. Io la penso come Gino Strada, sono contro la guerra. La sicurezza non giustifica la vendita di armi” (https://www.ilsussidiario.net/news/mimmo-lucano-questa-e-una-destra-disumana-e-pericolosa-la-sinistra/2384878/)

Solo mettere a fuoco la figura di quest’uomo buono e giusto, condotto ad agire in politica non per personale convenienza ma per umanità, può suggerire da che parte stare in questo momento, quando sono ancora molte le persone che dicono di non voler votare: come votare partiti che hanno provocato questa stessa crisi? Che all’inizio di quest’anno non sono riusciti nemmeno ad esprimere una preferenza condivisa per l’elezione del presidente della Repubblica?

Poi nella mente mi si è affacciato un altro viso caro: quello di padre Alex Zanottelli, il missionario comboniano oggi 84enne che ricordo in prima fila all’enorme manifestazione per la pace a Roma nel 2004. Dopo tanti anni in Africa, ha scelto di vivere a Napoli, osservatorio privilegiato da cui far sentire la voce di profeta dei nostri tempi. Ecco il suo ultimo messaggio, inviato da un amico via whatsapp. Sì, è lungo ma vale la pena di leggerlo. Si intitola “Rompiamo il silenzio sull’Africa” ed è rivolto a tutti i giornalisti. 

Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo.

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto.

Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.

So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.

È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.

È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.

È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.

È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.

È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.

È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.

È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.

È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.

È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.

Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.

Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.

Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.

Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).

Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?

Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.” (https://www.articolo21.org/2022/08/rompiamo-il-silenzio-sullafrica-appello-di-padre-alex-zanotelli/)

Nel bar dove segno tutto questo mi viene incontro un’ultima ancora di salvataggio: “May you live in interesting times”, bustina di zucchero targata Biennale Arte 2019. Tre anni fa, prima della pandemia, della guerra e di tutto ciò che viviamo oggi, qualcuno ci aveva augurato di vivere in tempi interessanti. Che questo accada davvero. Non lasciamoci abbindolare dagli slogan e seguiamo la linea tracciata da chi ha vissuto sulla propria pelle cosa voglia dire ricchezza, povertà, ingiustizia, accoglienza, tenerezza. Poco prima di morire anche un grande intellettuale e giornalista italiano, Edmondo Berselli, l’aveva scritto in un libriccino pubblicato postumo (L’economia giusta): “Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche noi tutti dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti”.

giovedì 11 agosto 2022

A Roma

c'è il mondo
c'è la vita
la fede
le Madonne ad ogni angolo di via
la creatività un po' folle
la stravaganza l'arte
il teatro di strada con Marcelo che sgrana gli occhi nel fermo immagine a Piazza Navona e si fa fotografare così, con l'occhio a palla da condividere in due, come pesci fuor d'acqua nel gran calderone della capitale.

A Roma ci sono
le rovine rovinate
l'archeologia urbana
il dialetto che ti calma e tutto sdrammatizza.
C'è Sanpietro e i sanpietrini che distruggono i piedi
E i turisti a frotte
Il sorriso e la burineria
Le battute la risata
I messaggi di strada come questo, sublime, fuori da un ristorantino del centro: "Sognatore è colui che in un uovo vede una carbonara".

Ci sono i colori le pizze e le puzze
L'immondizia diffusa
I barboni
Tanti poveri cristi buttati per terra così, nell'indifferenza generale (o nell'abbraccio universale?) come se fosse la cosa più normale del mondo. Un pugno nello stomaco, da riscrivere il buon samaritano, da farlo rivivere ad ogni marciapiede.

E c'è il Papone Francesco che prega per tutti.

Roma vita amore. 

lunedì 27 giugno 2022

Incontri salva-vita

Ci sono incontri salva-vita. E spesso questi incontri capitano la domenica, il giorno della festa e della sospensione delle umane attività, quando corpo, mente e spirito riescono a fare spazio ad altro che non siano i propri pensieri affannosi.

Ieri mi ha salvato Giordano, il volto buono della follia. Prima di Basaglia qui a Trieste bastava essere un bambino un po’ “fuori di testa” e venivi subito portato al manicomio. Giordano aveva 7-8 anni quando dal Burlo si ritrovò a San Giovanni. Ora ti racconta tutto con estrema lucidità e le braccia che tremano. Ma non un filo di rabbia o di risentimento per tutto ciò che ha dovuto subire: una ventina di elettrochoc, con scariche che addirittura gli facevano uscire fumo dalle orecchie. Robe da lasciarci la pelle, infatti un paio di ragazzi dopo un elettrochoc del genere sono morti.

Sono loro i veri maestri. Gli amici di quel “Maestro buono” che ha conquistato tanti di noi proprio per quella capacità di camminare accanto ai più deboli ed emarginati. E come il suo volto d’amore ci ha salvato, continuano a salvarci i volti dei tanti diseredati della terra. Sono loro la Buona notizia. Che ti arriva dolce proprio come le parole di Giordano.

Ma il bello deve ancora venire. In questo momento di terra infuocata e caldo asfissiante, solo da uno come lui poteva arrivarti un consiglio di cucina che ti rimette in vita. “Vado a casa e mangio la peperonata, l’ho fatta io!”. Segue ricetta: cipolle rosse di Tropea con aglio da far soffriggere, basilico, peperoni multicolori, melanzane, pomodorini, tutto in pentola a pressione. “Ma non aprire subito, sennò scoppia!”. E poi i racconti dell’Accademia della follia, cioè il teatro che anche lui salva-vite di continuo perché ti porta fuori da te.

E la casa, in una rovente domenica di giugno, si riempie di un odore intenso d’estate. Grazie, Giordano, la tua fede mi ha salvata.

venerdì 31 dicembre 2021

Che sia benedetta

C’è la peste, Jonny, c’è la peste. Lo so che tu lo sai perché è arrivata anche dalle tue parti. Girano tutti con le mascherine nere, bianche, verdi, blu, rosa e azzurrine, e in questi giorni che c’è freddo, con il cappello in testa, sembra che indossino tutti un burqa che nasconde il viso.

Siamo solo occhi. Occhi che si scrutano o nemmeno quello. Occhi che guardano avanti, per terra, in alto. Sì, in alto, Jonny. Io voglio guardare il cielo. Mi piace da matti guardare lissù perché mi mette pace. Ieri qui c’era un tramonto di quelli che ha cantato Elisa nei “Tramonti a Nord-Est”: uno spettacolo galleggiante di mare, rosa, azzurro, nuvolette. E in quel momento mi sono scordata tutto. Anche il burqa.

Non ti trattengo troppo, Jonny. Perché tra un po’ mi voglio seguire il Te Deum del Papa. La voglio sentire questa preghiera dell’ultimo giorno dell’anno, che anche in un anno come questo può trasformarsi in ringraziamento. Proprio come è successo poche ore fa in piazza Unità: sai la più grande piazza affacciata sul mare, come hanno sempre detto le guide turistiche qui a Trieste? L’abbiamo passeggiata in lungo e in largo perché è l’ultimo giorno dell’anno, e per terra c’erano ancora le scritte degli accampamenti dei mesi scorsi durante le proteste No-Green Pass: ‘Trieste chiama/Verona-Milano-Genova’ ecc. Trieste chiamava tutte queste altre città. Proprio lei: l’indipendente, autonoma, libera, asburgica, scientifica, fredda Trieste chiamava a raccolta come una chioccia tante altre città italiane. Per protestare contro Green-Pass, vaccini e co. Tutto passa, ed è passata anche questa.

Ma oggi la musica era diversa. C’era proprio la musica, Jonny. Tra gli alberi di Natale addobbati di rosso correva la musica di festa. Tutti mascherati, tutti con il burqa, ma c’era la musica, e che musica! Suonava Fiorella Mannoia e la sua “Che sia benedetta”, Sanremo dell’anno in cui mio padre se n’è andato: 2017. Mi sono piazzata al centro della piazza, che è già bello da scrivere, e mi sono fermata lì, a non fare niente. Solo ascoltare le parole di Fiorella tra gli alberi natalizi. “Che sia benedetta. Per quanto assurda e complessa ci sembri, la vita è perfetta. Per quanto sembri incoerente e testarda, se cadi ti aspetta. Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta. Tenersela stretta”.

Così in quel momento, Jonny, avrei voluto chiamarti. Per dirti che è proprio così, come canta Fiorella. E che ce lo dovremmo ricordare più spesso, anche quando invece dentro ci sale la rabbia e il cinciut e la malinconia. Ora vado a sentire cosa dice il Papa e, se c’è qualche frase di quelle memorabili, te la scrivo qui sotto. Intanto auguri!

PS: “Non c’è nulla di più meraviglioso della realtà”. Questo mi sono segnata. E me lo tengo stretto. Francesco secondo me oggi l’ha ascoltata anche lui Fiorella.

sabato 20 novembre 2021

M’illumino d’immenso

E poi una sera, quando meno te l’aspetti e hai pure preso una Tachipirina per il mal di testa, capita di sentir tuonare. Un prete che non ha la faccia da prete tuona dal pulpito di una chiesa di periferia. Prende il microfono in mano e in certi toni sembra quasi assordante. Parla di naufragi, di gente che sta in carcere da una vita ma proprio lì ha imparato a vivere; racconta di sé, di Giuseppe Ungaretti e delle ninfee di Claude Monet: ne ha fatte 37, e qual era la migliore? Forse l’ultima? No, la prima: non la più perfetta ma quella concepita nel momento di “massima ignoranza”, quando è ancora possibile il “massimo stupore”.

Si rimane incollati alle panche ad ascoltare. A digerire macigni. Come la storia di chi è in carcere dal 1991 ed è arrivato a questa saggezza, da imparare a memoria subito: “non importa quanto tempo devo stare qui dentro, posso sempre decidere come starci, come vivere: da guerrafondaio o da poeta”. Forse la voce che parla da quel microfono le ha conosciute le tonalità del guerrafondaio, ma deve alla fine aver scelto la strada della poesia: perché c’è troppa ispirazione in quelle parole. L’ispirazione dell’artista, di chi sa cogliere nella realtà che viviamo non soltanto la tenebra e l’oscurità, ma la luce che può illuminare queste tenebre. “Non aver paura dell’ombra, perché vicino c’è la luce; non esiste la bruttezza, esiste la bellezza che manca; non esiste la cattiveria, esiste la bontà che manca; non esiste l’ombra, esiste la luce che manca”. Siamo orfani di luce in questo momento; siamo pieni di paure, e pure di rabbie e di stanchezze che si stanno depositando dentro di noi come strati archeologici sempre più spessi. Eppure proprio in questo momento ci sono voci che ci possono scuotere dal torpore pericoloso in cui rischiamo di cadere.

Come appunto le voci dei poeti. Metti Ungaretti, per esempio. Ha scritto quella poesia che ciascuno di noi ha impressa dentro il suo dna, a volte senza nemmeno ricordare il nome dell’autore: “M’illumino d’immenso”. In quelle quattro parole c’è tutto. Tutto quello che anche adesso può succedere a ciascuno di noi: lasciarsi illuminare d’immenso. Lasciarsi baciare dalla tenerezza di uno sguardo, dalla bontà, dalla bellezza; dalle foglie giallo fosforescente dell’autunno, dai cachi arancioni che fanno già albero di Natale in ogni giardino; dagli occhi pieni di vita di un adolescente in crisi; dalle mani tremanti di un vecchio che ha perso la testa. “M’illumino d’immenso”: quattro parole che spiegate così nessuno di noi le aveva mai sentite. “M’illumino perché è come se si fosse proprio puntato la luce contro”. Ci sono momenti della vita in cui il buio è fitto, ma questi versi dicono anche a noi oggi che “in quel buio non sono scappato, ma ho cercato la luce che potesse illuminarmi”. Quella poesia Ungaretti l’ha scritta a 29 anni, nel pieno della I guerra mondiale, ed ha pure una data precisa: 26 gennaio 1917. E un luogo preciso, S.Maria la Longa, paesino a poca distanza da Palmanova. “Dentro al buio della guerra si è lasciato illuminare”.

Da dove ripartire dunque oggi? Da sé stessi. Dalla propria storia. Da quello che resta dopo tutto ciò che abbiamo vissuto. ll prete che tuona da quel microfono ogni tanto la voce la abbassa. E vedi il ragazzo, il giovane uomo che deve averne viste tante e di ogni storia si è innamorato; si è lasciato contagiare dalla fragilità di chi lo ha accostato, e proprio da quella fragilità è stato salvato. Le storie più belle sono quelle di chi “dopo il naufragio ha vinto la vergogna e si è messo sulla strada”: ex carcerati, ex pazienti di manicomi, e la lista potrebbe continuare all’infinito. Sono le storie di chi ha accettato di essere sé stesso senza ripiegarsi sul suo dolore, su ciò che avrebbe potuto anche abbatterlo per sempre.

Come ripartire? “Dalla tua vita, da quello che sei, dall’amore per le piccole cose”. Lo dice anche Ungaretti in un’altra poesia: “E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare”. Non rinunciamo a vivere dopo il naufragio. E soprattutto non lasciamo naufragare lei, la piccola speranza, alla quale Charles Peguy dedicò stupende parole nel ‘Portico del mistero della seconda virtù’. “Non c’è nessun luogo della storia dove tu non possa fare esperienza di bellezza”. 

Un immenso, sentito grazie a don Marco Pozza, cappellano del carcere ‘Due Palazzi’ di Padova per questa lettura intensa, vissuta ed assordante di un piccolo tesoro della poesia italiana. Ci voleva un prete come lui, turbolento e dolce al tempo stesso, per far risuonare in quel modo Ungaretti in una chiesa semplice, scaldata solo da quel lumicino accanto al tabernacolo che non si spegne mai. Al quale si dovrebbe tornare un po’ più spesso per lasciarsi illuminare nelle proprie angosce.

E subito abbiamo ripreso il viaggio, come superstiti lupi di mare, tornando alle nostre case con un batticuore da bambini che hanno dentro una gioia inquieta che non si scorda.