sabato 26 ottobre 2024

Ci volevi tu,

caro Simone, per raccontare a Trieste la sua storia complessa e “spigolosa”, come l’hai definita all’inizio del tuo bellissimo spettacolo proposto questa mattina al Teatro Rossetti per celebrare i 70 anni del ritorno di Trieste all’Italia: Trieste 1954. Sei stato il libro di storia che vorremmo ascoltare ogni giorno; capace di narrare fatti ma anche emozioni, sentimenti, musiche, poesia.

Le Frecce tricolori hanno da poco solcato un cielo di nuvole e grigio. Ieri due aerei rombanti avevano fatto le prove senza colori nella tarda mattinata, e molti di noi a scuola avevano avuto brutti pensieri. Venti di guerra, esercitazioni militari, preghiamo in tutte le lingue che conosciamo. Possibile che, con tutto il progresso e le intelligenze artificiali che abbiamo, non riusciamo a far tacere le armi? Meno male che c’è l’arte. Simone Cristicchi con la sua chioma arruffata da menestrello dei nostri tempi, profondo e leggero come sanno esserlo solo i veri artisti innamorati della bellezza.

E questa è una lettera aperta a te, Simone. Per ringraziarti. Solo tu sei stato in grado in questi anni di fare il cantastorie di una città dal passato così drammatico come poche in Italia. Una città “diversa da tutte le altre”, hai detto oggi, offrendo in un’ora di spettacolo una sintesi che sarebbe stato impossibile affidare ad un triestino o a qualcuno che abbia vissuto sulla propria pelle anche solo un pezzetto delle tragedie che hanno segnato queste zone di confine. Chiamiamole “frontiere”, hai proposto, più umane, meno rigide, meno segnate con il righello puntiglioso dei “trattati” che finiscono per “trattare male” chi poi dovrà vivere in quelle terre divise. Perché questo è toccato alla città di Saba dalla “scontrosa grazia”: essere divisa, zona A, B, con quelle prime lettere dell’alfabeto che poi ritornano nel “capo in B” e nella squadra di calcio che retrocede.

Dieci anni fa hai raccontato il “Magazzino 18” e il dramma dell’esodo e delle foibe. E lo ricordo il Teatro Rossetti anche quella sera. Ricordo l’emozione, gli applausi e le persone in piedi. Ma ricordo anche i commenti malevoli, quasi sprezzanti, che avevano preceduto la tua esibizione. Cosa ne saprà questo romano centro-italico di ciò che abbiamo vissuto qui? Con che coraggio questo “foresto” si mette a parlare delle nostre zone? E invece alla fine standing ovation, lacrime, quella catarsi capace di far riconciliare con la memoria di un passato che a volte sembra non passare mai.  

Per questo continuo a pensare che anche il racconto che abbiamo ascoltato oggi a teatro, preciso nella sua ricostruzione storica quanto lieve nello stile, l’hai potuto fare solo tu. Anche osando il romanesco dell’archivista Persichetti che dialoga con sua moglie. Tu che in questi luoghi non ci vivi e che dentro ti porti una distanza. La giusta distanza per non farti invischiare nelle polemiche e nelle strumentalizzazioni politiche che non riusciranno mai a raccontare davvero lo storia com’è stata.

E invece lì, in quell’ora sul palco, tu questa storia l’hai raccontata al meglio: Trieste un’identità di frontiera, Trieste di bora e di caffè che si capiscono solo qui, e di parole che vogliono dire l’opposto di quello che ci si aspetta, come “volentieri”. E poi la storia di quel ’45 che per Trieste non segnò la fine della guerra ma l’inizio di una nuova occupazione durata quasi 10 anni. Ti sei coraggiosamente addentrato nelle pieghe più incomprensibili e pure sconosciute di quei giorni. In quel groviglio di dettagli e di contrapposizioni che creano sgomento in chiunque si trovi alle prese con la spiegazione di quelle difficili, complesse pagine di storia. E mentre tu raccontavi, la musica dell’Orchestra Teatro Verdi di Trieste e il Coro del Friuli Venezia Giulia, a sottolineare con grazia le parole e le immagini della grande, incontenibile gioia che accompagnò quel 26 ottobre del 1954: giorno del ritorno di Trieste all’Italia. O meglio, hai specificato, alla libertà.

Potenza dell’arte che libera. Libera la memoria, libera il cuore, fa volare alto. Grazie, Simone. Vorremmo regalarti tutte le rose del mondo per la persona che sei. Perché hai unito tutto, integrandolo in un grande racconto liberatorio: Franco Basaglia, Marco Cavallo e i “matti” che avevi cantato anche tu nel 2007 vincendo Sanremo; la Storia e le storie di sofferenze difficili da immaginare per chi non c’era; la gioia che oggi forse si respira poco ma che invece c’è stata. E, come tutte le gioie che arrivano dopo un dolore intenso, ci ha fatto commuovere un po’ tutti. E ritrovare assieme anche dopo il teatro.

 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Brava Lucia!