venerdì 3 marzo 2006

Sansport
Forse il problema principale del Festival della canzone italiana, senza entrare nel merito della bellezza o bruttezza dei singoli brani (e questa volta la 56esima edizione di Sanremo sembra complessivamente moscia e triste: non a caso un gruppo si chiama 'Ameba4'), è davvero la lunghezza. La durata complessiva della trasmissione: eterna, biblica, estenuante, spezzettata da uno sproposito di pubblicità e di vario intrattenimento offerto per paura che il il pubblico cambi canale sopraffatto da troppa musica sconosciuta. Allo scoccare della mezzanotte non hanno ancora finito di cantare i giovani, e i singoli brani durano troppo poco per essere apprezzati. Alex Britti lo dice: si vorrebbe continuare a suonare.  Cultori o meno della musica made in Italy, certi cantanti (vedi il caso di Mario Venuti, eliminato la seconda serata, degli Zeroassoluto o della giovane L’Aura, che evoca così tanto Elisa per timidezza, movenze e anglomania), uno avrebbe voglia di sentirli suonare più a lungo. Per fare veramente della musica una “forza”, come recita lo slogan ripetuto più volte da Panariello. Un festival sfrondato di tutto ciò che non è musica, così aveva promesso il conduttore prima di essere travolto dalla macchina di Sanremo che trita, critica e marchia a fuoco. E allora fate diventare di nuovo le note protagoniste, e tutto il resto via: in seconda, terza, quarta serata. Prima il festival cantato, quello con la chiave di violino (immortalata nella scultura di cui Pieraccioni diceva: 'ochellè? Uno zampirone?') e dopo, se proprio bisogna, il festival recitato, comicizzato, campionizzato e calciato dall'onnipresente pallone nazionale. Altrimenti si ottiene l'effetto contrario: che il pallone, lo sport e tutto il resto danno un sonoro calcio alla musica. E allora chiamatelo Sansport, Sancalcio, Santutto. Ma Sanremo no, perché questo non è più il Festival della canzone che radunava attorno ad una radio l'Italia.

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