domenica 20 febbraio 2011

Malafrica
 
Dici se ho il mal d’Africa?
Bisognerebbe capire cos’è questo mal d’Africa.
Oppure, come tutti i mali veri, rifiuta le definizioni troppo schematiche,
quindi è inutile cercare di definirlo.
Però adesso, a distanza di più di un mese dal ritorno dal continente nero madre di tutti noi,
ci sono scene che vorrei vedere con gli occhi di un africano.
Per esempio la finale di ieri di Sanremo: avrei voluto vederla con
i bambini del villaggio di Tanghai, sperduto nella savana a più di 200 km dalla capitale del Burkina Faso, Ouagadougou.
Non so se i bambini avrebbero retto fino alla fine o si sarebbero addormentati prima.
Non so cosa ne avrebbero pensato della canzone vincitrice del Festival,
che a me sembra tanto bella e piena di amore,
ma chissà, a chi è abituato a sentire ritmi indiavolati di djembe
o canti nasali spezza-timpani con ululato finale
(come ho sentito fare a certe donne africane durante la messa),
le nostre canzoni devono sembrare minestrine all’acqua di rose, e
anche qui non so se riusciremmo a capirci perché le rose
non crescono nella savana.
 
Mal d’Africa?
L’Africa mi ha fatto sentire molto male, questo lo posso dire apertamente.
Mi ha fatto sentire a disagio, imbarazzata, inutile, colpevole, vergognosa, impacciata, come ci sentiremmo tutti di fronte alla povertà vera, che è molto diversa
da quella che conosciamo nelle nostre città.
Ma questo non è il mal d’Africa, dirai tu.
E io ti dico che non è detto.
Anche questo è mal d’Africa. Soprattutto se penso alla scena di oggi
fuori dalla chiesa del Gesù qui a Roma.
Una cosiddetta ‘povera’ chiede la carità con insistenza,
quasi con violenza, come se le fosse dovuta.
Nel continente più povero del mondo, o meglio ricchissimo di risorse
ma povero grazie al nostro spettacolare intervento occidentale di ieri,
e ancor più povero oggi per la corruzione e le politiche locali,
non ho mai visto un ‘povero’ mendicare con violenza o aggressività.
Ho sentito voci sottilissime, quasi flautate, di bambini che chiedevano
‘biro’, cioè penne biro, con l’accento francese sulla ‘o’ finale.
‘Birò’ e ‘Bidòn’, ovvero la bottiglia di plastica vuota,
che poi loro avrebbero riutilizzato o, chissà, trasformato in gioco.
E sì, ho sentito chiedere la carità, ma mai con volti cattivi o
arrabbiati.
 
Ed ho anche imparato che è un gesto di grande libertà
rispondere: no, non hai bisogno dei miei soldi,
puoi diventare un grande ingegnere, e tu invece hai la faccia dell’insegnante,
perché forse i cosiddetti ‘poveri’, se davvero di noi hanno bisogno,
è per avere una parola di speranza e di apertura sul futuro
che non li condanni in eterno soltanto nel ruolo di chi aspetta
qualcosa dall’alt(r)o. Perché questo, da noi come da loro, non si chiama
carità ma assistenzialismo.
“Sono disoccupata anch’io”, rispondo alla ‘povera’ che in tutta
risposta mi ruggisce addosso un paio di frasi di alta volgarità
con riferimento alle signorine e signore che guadagnano euro facili
in modi un po’ meno ortodossi rispetto a chi si mette fuori
da una chiesa ad aspettare. E, parentesi, palazzo Grazioli è
a pochi metri di distanza dalla piazza del Gesù.
Ecco un altro meraviglioso prodotto dell’Italia berlusconiana,
che rimarrà tale ancora a lungo anche se il Silvio nazionale finisse
in galera in nome della giustizia: i poveri che sbraitano e pretendono
e si mettono a confronto tra loro, ed è lì che ti vien da pensare
che allora forse non sono tanto poveri.
Povera Italia.

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