martedì 26 marzo 2013

Dammi tre parole

Arriveranno dritti dritti nelle caselle postali di ministri e parlamentari. E' la promessa che oggi ha fatto il direttore della casa editrice bolognese Emi Lorenzo Fazzini su sollecitazione potente ed appassionata di don Luigi Ciotti. Il contesto? La presentazione alla stampa dei primi due libri tradotti in italiano del nuovo papa Francesco: Guarire dalla corruzione e Umiltà. La strada verso Dio. Li hanno tradotti alla Emi in un giorno e una notte. Miracoli della passione e dell'urgenza di comunicare al più presto qualcosa che ci aiutasse a conoscere meglio chi è l'uomo che il 13 marzo scorso si è affacciato al finestrone della Basilica di San Pietro emozionando il mondo.

Due testi e tre parole. Non 'sole-cuore-amore', come cantava la Valeria di un decennio fa, ma tre parole più intense, secondo una modalità delle meditazioni ignaziane, come ricordato da p.Antonio Spadaro, direttore della 'Civiltà cattolica'. Tanto per cominciare, "autoreferenzialità, corruzione, povertà".  Autorerenzialità come atteggiamento difensivo e arroccato. Quante volte anche all'interno della stessa Chiesa? Corruzione come "stanchezza della trascendenza", scrive papa Bergoglio. La vita dell'uomo può perdersi nella frivolezza, dimenticandosi di Dio. "Il corrotto viene quindi irretito e irretisce, in un processo di 'pigmeizzazione' dei proseliti. Il corrotto, infatti, attorno a sè non ha amici. Ma solo utili idioti". 

E la povertà? "Non è ideologia della povertà", ha richiamato Spadaro. E' l'opposto del "clericalismo ipocrita". Uno come Matteo Ricci, per esempio, non disdegnò di vestirsi d'oro per cercare un dialogo con l'imperatore della Cina. Era gesuita anche lui. "La povertà materiale è necessaria perché il denaro è un idolo". D'altra parte, in questa linea, papa Bergoglio non è solo. Anche papa Giovanni XXIII diceva: "Quando scendo in basilica e mi vedo preceduto da tante guardie, mi sento come un detenuto. E invece vorrei essere il 'bonus pastor' per tutti."

Siamo liberi o detenuti? Liberi o prigionieri? A volte anche di noi stessi, dei nostri egoismi, delle nostre tristezze e rabbie, dei nostri cinismi ed indifferenze? Spadaro, a chi vuol stare tranquillo, consiglia di non leggerli questi due libriccini. Perché non fanno dormire. Sono "ustionanti". Perché chiamano in causa prima di tutto la nostra coscienza. La nostra anima. Non possiamo più uscire a denunciare tutti. Dobbiamo partire da noi stessi. Denunciare innanzitutto noi stessi. E questo è un tratto tipicamente ignaziano e gesuitico, come ricordato dalla prof.Lucetta Scaraffìa, che insegna Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma. "Il percorso degli esercizi spirituali ignaziani - ha detto la prof.Scaraffìa - porta a vedere la realtà su se stessi con molto coraggio e severità". E aggiunge: "Ora il papa ha un successo stellare perché se ne vede il 'lato Francesco'. Quando farà sentire il 'lato Ignazio, forse piacerà un po' meno."

Intanto, i due brevi scritti di papa Bergoglio (uno è un commento ad una serie di testi di Doroteo di Gaza sull'accusa di se stessi, con postfazione di Enzo Bianchi, monaco priore dei Bose; l'altro è un testo del 1991, con la postfazione di Pietro Grasso, presidente del Senato, già Procuratore nazionale antimafia) hanno conquistato anche don Luigi Ciotti, che li considera profetici per i nostri tempi.  Lui, don Luigi, che al cospetto di gesuiti e professori, dice di avere un'unica laurea: "in scienze confuse". Eppure quando apre bocca la confusione scompare. Per lasciare il posto alla passione del lottatore. Lui, che con l'associazione 'Libera' si è ritrovato lo scorso 21 marzo a Firenze con 150mila persone (per la Questura, sottolinea, quindi molte di più). Per dire basta alla corruzione. Basta alla violenza. Basta alle mafie di tutti i continenti e le latitudini. 

"Lo diceva già a Milano nel 1984 prima di Tangentopoli un altro gesuita, Carlo Maria Martini", ha ricordato don Ciotti. "Parlò di tre forme di peste: la solitudine, la violenza, la corruzione. Rileggere Martini oggi è impressionante. Aveva ragione quando diceva: il male esiste, e va affrontato, nominandolo. Chiamiamo per nome questa peste: mafia". Tra i caratteri della corruzione, la simulazione dei "sepolcri imbiancati", perché in ogni menzogna la maschera è essenziale. Il corrotto - dice Ciotti citando papa Francesco - "ha sottomesso il vizio ad un corso accelerato di buona educazione", per cui il corruttore "ti frega con il sorriso, con l'affabilità..."

E poi "il corrotto ha la necessità di autogiustificarsi, il seduttore ha bisogno di sedurre innanzitutto se stesso", convincendosi che poi in fondo tutti fanno così, tutti sono uguali, che male c'è? Il risultato - ricorda Ciotti - sono 60 miliardi di corruzione pubblica, perché molti hanno scelto la "legalità sostenibile, malleabile". Seguo la legge quando mi va, la abbandono quando non mi conviene più. Altre tre parole della corruzione: "spudoratezza, trionfalismo, proselitismo". Il corrotto ha perso il senso del pudore, non li sente più i richiami della coscienza. E cerca di fare proseliti tra la gente. Per questo, occorre "educarci tutti alla corresponsabilità". Essere responsabili, tutti assieme, di questo mondo. "Abitare il tempo. Ed abitarlo assieme."

Ce li vogliamo immaginare, questi due innocui volumetti, sui banchi dei palazzi del potere. Riusciranno a scuoterli dalle fondamenta? Intanto, lasciamoci scuotere noi. 





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