Apprendiamo
con un certo sgomento, frammisto ad ilarità repressa, che l’attuale governo del
cambiamento ha intenzione di porre mano anche ad una quanto mai urgente
revisione e censura dei proverbi italiani.
“Siamo tutti nella stessa barca”, per esempio, nella traduzione inglese “We’re all in the same boat”, è stato di recente stigmatizzato in quanto reo di andare in direzione contraria rispetto alle direttive governative in tema di mare e migranti. Il proverbio è stato scelto come slogan della prossima Barcolana, regata velica che si svolge da 50 anni nel golfo di Trieste, diventata ormai evento di grande rilievo internazionale. “Un manifesto che fa inorridire, diffuso proprio mentre il ministro degli Interni Salvini è impegnato a ripulire il Mediterraneo”, ha dichiarato il vicesindaco leghista della città (Repubblica, 8.8.2018, p.22).
Sulla
stessa onda, si attendono dichiarazioni revisioniste e proposte censorie su
versi di canzoni quali “E la barca tornò sola”, con il correlato “Mare crudele-mare
crudele”, da espungere dalla canzone di Renato Carosone in quanto ritenuto offensivo
nei confronti delle attuali politiche migratorie, seppure salvato in corner da
quella strafottente ripetizione di: “E a me che me ne importa?”.
Censura completa su refrain di grandi classici del repertorio pop italiano quali “Vorrei la pelle nera” oppure su versi troppo espliciti come i seguenti: “Pittore ti voglio parlare, mentre dipingi un altare. Non sono che un povero negro, ed un favore ti chiedo”. Nonostante la provenienza veneta, verranno certamente sanzionati presto anche i Pitura Freska con il loro ormai antico motivetto “Sarà vero/dopo Miss Italia aver un Papa nero?/No me par vero”.
Tutti
da rivedere anche i modi di dire che tirino in ballo i neri, quali “essere una
pecora nera”, “vedere nero” et similia. Troppo schierati.
Inoltre, c’è da aspettarsi di questo passo una seria revisione di tutto il fenomeno migratorio italiano, affidata a menti illuminate che presto ci informeranno che tutti gli italiani emigrati all’estero o semplicemente dal Sud al Nord Italia a partire dagli inizi del Novecento, altro non erano che crocieristi in vacanza.
Non sia mai, poi, che qualche rappresentante del governo del cambiamento
rilegga nel tempo estivo un breve racconto di Leonardo Sciascia (Il lungo viaggio, tratto dalla raccolta Il mare color del vino), in cui si racconta di un gruppo di emigranti italiani
in fuga verso l’America, ingenue vittime di un subdolo raggiro che farà loro
credere di essere arrivati a New York mentre in realtà la barca ha solo fatto
il giro della Sicilia, e tutti sbarcheranno esattamente a casa loro, da dove
erano partiti. Cinismo estremo dell’impresario, o scafista come si direbbe oggi, che qualcuno potrebbe prendere
come spunto da applicare in zona libica.
Fortuna
che questa è realtà virtuale di un sogno di mezza estate, mentre restando nella
realtà reale mi permetterei di consigliare la visione di "L'Italia della Repubblica: un popolo di emigranti", documentario andato in onda qualche sera fa su Rai Storia. E.Olivero, fondatore del Sermig di Torino, con volto calmo e sereno, concludeva
dicendo che proprio l’emigrazione dal Sud al Nord Italia tra la fine degli anni
Cinquanta e i primi anni Sessanta ha umanizzato e dato calore ad una terra che
sarebbe stata molto più fredda senza quel vitale apporto di Meridione. Da vedere.
Per sognare come ancora oggi il nostro Paese può restare e diventare più umano
proprio grazie a chi scappa da terre ostili.
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