venerdì 12 novembre 2010

Il miele turco

E allora via, via, vieni via con me. Via dagli stretti e angusti confini nazionali verso il Mediterraneo, tappeto che unisce e non divide, sul quale ci si può anche sedere tutti assieme per prendere un tè se dall’altra parte non ci fermano prima le motovedette della capitaneria di porto. Ma speriamo che questo succeda sempre meno anzi mai più, visto che ad evocare la bella immagine di un mare-tappeto è stato ieri sera proprio un onorevole (Antonio Marzano, del Cnel), intervenuto all’inaugurazione del
MedFilm Festival: cento film prodotti da più di 30 paesi che si affacciano sul Mediterraneo o in vario modo ne parlano per i movimenti di uomini e donne che hanno attraversato questo mare alla ricerca di una nuova vita.
 
Via, via, vieni via con me, via dalla politica per entrare nello sguardo intenso di Amara Lakhous, scrittore algerino che è stato a lungo “cittadino della lingua italiana”, come ha detto lui stesso ricevendo il premio Koinè, per diventarne ormai figlio in qualità di cittadino italiano a tutti gli effetti. Dobbiamo leggere, se ancora non l’abbiamo fatto, il suo ‘Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio’, da cui è anche stato tratto un film, e l’ultimo ‘Divorzio all’islamica a viale Marconi’, che già dal titolo suggerisce un impasto originale di cinema italiano ed esperienze di vita multiculturali nella capitale. Perché siamo tutti molti più intrecciati di quanto possiamo immaginare, come dicono le nostre lingue, continuamente contaminate da suoni stranieri che poi diventano parte integrante dei diversi vocabolari. Il nome Sciascia, per esempio – ricorda Amara –, contiene dentro di sé la parola araba 'cappello', e Racalmuto, paese d’origine dello scrittore siciliano, deriva dall'arabo 'villaggio morto'.
 
Via, via, vieni via con me, verso una Turchia che non hai mai visto né conosciuto. La Turchia di ‘Bal’, che in turco vuol dire ‘Miele’, titolo del film che ha inaugurato ieri sera il Medfilm Festival, terza opera di una trilogia del regista Simih Kaplanoglu, premiato con l’Orso d’oro all’ultimo Festival del cinema di Berlino: un film prezioso perché silenzioso, lentissimo, dove l’occhio ha il tempo per spaziare in meravigliose immagini di un paesaggio incontaminato, ed entrare negli occhi di un bambino che non parla quasi mai se non sussurrando nelle orecchie del papà; un film che mi è sembrato quasi monastico e per questo esotico, capace di portarti in un mondo lontano, sospeso, forse irreale ma per questo affascinante e dolcissimo, come le coperte delle nonne ricamate a mano: il mondo di quelle culture contadine che ancora sopravvivono in luoghi sperduti tra le montagne o ai confini degli stati, isole separate dalla cosiddetta civiltà, dove ci si veste ancora in modo tradizionale, non esistono cellulari né televisori, e se per caso qualcuno sparisce, non ci sono commissariati o trasmissioni da mobilitare, soltanto il rumore di un ramo spezzato nella foresta che risuona nelle orecchie di chi lo sa ascoltare. Cose turche, appunto.

Nessun commento: