Sono fermamente convinta che bisogna ripartire dal linguaggio.
E che molte malattie e molti malati guarirebbero anche se cambiassero le parole.
Eccone una, ascoltata poco fa alla radio durante un servizio dedicato ad un corso
per malati di Parkinson e parenti 'care-giver'.
Alzo la radio perché non sono certa di aver sentito bene ma giornalista
e intervistata ribadiscono la parola, che comprendo grazie alla conoscenza
dell'inglese: 'care-giver' è colui che offre una cura, che si prende cura di,
quello che per esempio dovrebbe essere il medico 'curante', che d'ora in poi
dovremmo chiamare medico 'care-giver'.
Scusi, vicina, mi potrebbe curar lei le piante che parto per un po'
E la vicina diventa 'care-giver' dei gerani.
Scusa, amico, mi dài un'occhiata al gatto per due giorni?
Sarai per questo 'cat-sitter' ma anche 'care-giver':
chi più ne ha più ne metta.
E la stessa piccola parola aleggia nell'aria:
perché?
Perché usare l'inglese anche quando non ce n'è bisogno?
Perché prediligere sempre l'incomprensione
alla comprensione immediata?
Perché non parlare semplicemente di parenti, amici, infermieri,
aiutanti (se proprio si vuole), curatori (se vogliamo le parole grosse),
e in definitiva di persone che dovranno sopportare molto, ed
essere molto pazienti, persino più del paziente stesso?
Avremmo bisogno di tanti 'care-giver' nella vita.
Forse non riusciamo a dirlo nella nostra lingua perché non abbiamo
il coraggio di ammetterlo.
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