Io li ho visti. Non sapevo dargli un nome ma li ho visti che sbucavano fuori dagli alberi dei boschi che lambiscono la strada statale, a pochi passi dall’Università “grande”. Li ho visti mentre ero in macchina e tornavo da scuola: giovani, pochi anni in più degli studenti, volti dalla pelle scura, felpe consunte con il cappuccio, una bottiglia d’acqua in mano, a gruppetti di tre-quattro, camminare uno dietro l’altro verso non so dove. Mi sono domandata chi fossero: certo “migranti”, come diciamo quando non sappiamo da dove vengano queste persone né dove vadano, ma siamo certi che non sono triestini in cerca di asparagi in Carso.
E poi li ho visti di nuovo, proprio a pochi passi da dove sono nata. In periferia, quasi di fronte al negozio di giornali che conosco da quando sono bambina. Erano stati fermati da una camionetta militare ed erano seduti per terra, questa volta un gruppetto più nutrito. Ma pioveva, e di nuovo ero in macchina, e di nuovo dovevo andare da qualche parte e non potevo fermarmi, così l’ho fatto ancora una volta. Ho voltato la testa dall’altra parte. Poi me ne sono dimenticata.
L’ho letta la parabola del buon
samaritano, la conosco bene, l’ho pregata e l’ho anche riletta nell’enciclica di
Papa Francesco 'Fratelli tutti', nella parte intitolata appunto “Un estraneo
sulla strada”. E loro erano precisamente questo: estranei sulla strada. Avevo
letto e sapevo dentro come ci si deve comportare, per non ritrovarsi un bel
peso sulla coscienza. Ma non l’ho fatto. Sono andata avanti, e ho dimenticato,
sopraffatta dal resto.
Oggi posso dare un nome a questi
estranei sulla strada. Oggi so, e non posso più tacere né dimenticare. Ho
ascoltato la presentazione del dossier “I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa”,
organizzato questa mattina dalla rete “RiVolti ai Balcani”,
ed ho sentito parlare chi sta dedicando la sua vita e il suo impegno a quella
che oggi è una criminale “politica di respingimenti” che a catena, un Paese
dopo l’altro, nega un diritto fondamentale a degli esseri umani che hanno l’unica
colpa di voler abbandonare la loro patria, in Asia o Medio-Oriente, alla
ricerca di una speranza di vita.
Oggi sono certa che quei ragazzi provenivano
dalla “rotta balcanica”. Forse ce l’avevano fatta ad arrivare fin qui, a
differenza delle migliaia di persone che vorrebbero varcare il confine della Croazia
per arrivare nel cuore dell’Europa, e vengono brutalmente respinte dalla
polizia croata. Sono respingimenti che in alcuni casi possono essere definiti
anche vere e proprie deportazioni - quali parole dobbiamo ancora risentire in
questo nostro tempo -, per impedire che queste persone arrivino anche da noi,
in Italia. Ci sono i numeri e le testimonianze: più di 21mila persone respinte
tra marzo 2019 e il 2020 dalla Bosnia-Erzegovina. E noi? Noi cosa c’entriamo?
Anche l’Italia – è stato ricordato questa mattina – fa parte di questo
meccanismo di violenza. Anche noi siamo complici. Ma non lo sapevamo.
Ora che lo sappiamo, cosa
possiamo fare? Restiamo indifferenti, così come è successo già altre volte
nella storia? Ce ne laviamo le mani perché abbiamo altro a cui pensare, vedi
alla voce pandemia? C’è qualcosa che comunque possiamo fare, seppure in un momento
in cui siamo tutti immersi in una gigantesca emergenza che però non ci nega il
diritto di essere curati, di mangiare, di dormire con un tetto sulla testa, di
stare al caldo in un appartamento con termosifoni bollenti?
Possibile che documenti e
documenti firmati da Paesi che si dichiarano democratici e civili, ivi inclusa
l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile dell’Onu, per la quale tutti noi
siamo chiamati ad impegnarci, non riescano a fermare la barbarie che si sta
consumando a pochi passi da noi?
Continuano a risuonarmi nella testa
le parole di Primo Levi che racconta l’inferno di Auschwitz:
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo.”
E ancora, nella prefazione del libro: “A molti, individui o popoli, può accadere di
ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più
questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si
manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un
sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso
diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena,
sta il Lager.”
Sì, ci sentiamo impotenti oggi di
fronte a quello che sta accadendo a pochi chilometri da casa nostra. Ci sentiamo
impotenti ma non possiamo più far finta di niente.
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