E poi una sera, quando meno te l’aspetti e hai pure preso una Tachipirina per il mal di testa, capita di sentir tuonare. Un prete che non ha la faccia da prete tuona dal pulpito di una chiesa di periferia. Prende il microfono in mano e in certi toni sembra quasi assordante. Parla di naufragi, di gente che sta in carcere da una vita ma proprio lì ha imparato a vivere; racconta di sé, di Giuseppe Ungaretti e delle ninfee di Claude Monet: ne ha fatte 37, e qual era la migliore? Forse l’ultima? No, la prima: non la più perfetta ma quella concepita nel momento di “massima ignoranza”, quando è ancora possibile il “massimo stupore”.
Si
rimane incollati alle panche ad ascoltare. A digerire macigni. Come la storia
di chi è in carcere dal 1991 ed è arrivato a questa saggezza, da imparare a
memoria subito: “non importa quanto tempo devo stare qui dentro, posso sempre
decidere come starci, come vivere: da guerrafondaio o da poeta”. Forse la voce
che parla da quel microfono le ha conosciute le tonalità del guerrafondaio, ma
deve alla fine aver scelto la strada della poesia: perché c’è troppa
ispirazione in quelle parole. L’ispirazione dell’artista, di chi sa cogliere
nella realtà che viviamo non soltanto la tenebra e l’oscurità, ma la luce che
può illuminare queste tenebre. “Non aver paura dell’ombra, perché vicino c’è la
luce; non esiste la bruttezza, esiste la bellezza che manca; non esiste la
cattiveria, esiste la bontà che manca; non esiste l’ombra, esiste la luce che
manca”. Siamo orfani di luce in questo momento; siamo pieni di paure, e pure di
rabbie e di stanchezze che si stanno depositando dentro di noi come strati
archeologici sempre più spessi. Eppure proprio in questo momento ci sono voci
che ci possono scuotere dal torpore pericoloso in cui rischiamo di cadere.
Come
appunto le voci dei poeti. Metti Ungaretti, per esempio. Ha scritto quella
poesia che ciascuno di noi ha impressa dentro il suo dna, a volte senza nemmeno
ricordare il nome dell’autore: “M’illumino d’immenso”. In quelle quattro parole
c’è tutto. Tutto quello che anche adesso può succedere a ciascuno di noi:
lasciarsi illuminare d’immenso. Lasciarsi baciare dalla tenerezza di uno
sguardo, dalla bontà, dalla bellezza; dalle foglie giallo fosforescente dell’autunno,
dai cachi arancioni che fanno già albero di Natale in ogni giardino; dagli
occhi pieni di vita di un adolescente in crisi; dalle mani tremanti di un
vecchio che ha perso la testa. “M’illumino d’immenso”: quattro parole che
spiegate così nessuno di noi le aveva mai sentite. “M’illumino perché è come se
si fosse proprio puntato la luce contro”. Ci sono momenti della vita in cui il buio
è fitto, ma questi versi dicono anche a noi oggi che “in quel buio non sono
scappato, ma ho cercato la luce che potesse illuminarmi”. Quella poesia
Ungaretti l’ha scritta a 29 anni, nel pieno della I guerra mondiale, ed ha pure
una data precisa: 26 gennaio 1917. E un luogo preciso, S.Maria la Longa,
paesino a poca distanza da Palmanova. “Dentro al buio della guerra si è
lasciato illuminare”.
Da
dove ripartire dunque oggi? Da sé stessi. Dalla propria storia. Da quello che
resta dopo tutto ciò che abbiamo vissuto. ll prete che tuona da quel microfono
ogni tanto la voce la abbassa. E vedi il ragazzo, il giovane uomo che deve
averne viste tante e di ogni storia si è innamorato; si è lasciato contagiare
dalla fragilità di chi lo ha accostato, e proprio da quella fragilità è stato
salvato. Le storie più belle sono quelle di chi “dopo il naufragio ha vinto la
vergogna e si è messo sulla strada”: ex carcerati, ex pazienti di manicomi, e
la lista potrebbe continuare all’infinito. Sono le storie di chi ha accettato
di essere sé stesso senza ripiegarsi sul suo dolore, su ciò che avrebbe potuto
anche abbatterlo per sempre.
Come ripartire? “Dalla tua vita, da quello che sei, dall’amore per le piccole cose”. Lo dice anche Ungaretti in un’altra poesia: “E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare”. Non rinunciamo a vivere dopo il naufragio. E soprattutto non lasciamo naufragare lei, la piccola speranza, alla quale Charles Peguy dedicò stupende parole nel ‘Portico del mistero della seconda virtù’. “Non c’è nessun luogo della storia dove tu non possa fare esperienza di bellezza”.
Un immenso, sentito grazie a don Marco Pozza,
cappellano del carcere ‘Due Palazzi’ di Padova per questa lettura intensa,
vissuta ed assordante di un piccolo tesoro della poesia italiana. Ci voleva un
prete come lui, turbolento e dolce al tempo stesso, per far risuonare in quel
modo Ungaretti in una chiesa semplice, scaldata solo da quel lumicino accanto
al tabernacolo che non si spegne mai. Al quale si dovrebbe tornare un po’ più
spesso per lasciarsi illuminare nelle proprie angosce.
E
subito abbiamo ripreso il viaggio, come superstiti lupi di mare, tornando alle
nostre case con un batticuore da bambini che hanno dentro una gioia inquieta che
non si scorda.
2 commenti:
Grazie per queste parole piene d'amore. Le tue, cara sorella che vivono di quel tanto, immenso, tenero e fragile Amore che don Marco ci ha donato.
Grazie per averci reso partecipi. Grazie perché Ungaretti a scuola, non me l'avevano spiegato cosí bene. Grazie
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